Negli ultimi anni, diversi casi di molestie e violenze sessuali hanno sconvolto le università italiane. Nel 2022, un ex direttore dell’Università di Bologna è stato condannato a un anno e otto mesi per aver aggredito tre studentesse. Nel 2024, un professore dell’Università di Genova è stato indagato per aver utilizzato l’intelligenza artificiale per manipolare e diffondere foto intime di studentesse, mentre all’Università di Torino sono emerse numerose denunce di molestie. In pochi giorni, le denunce si sono diffuse in tutto il Paese, dando vita a quello che molti hanno definito il “#MeToo delle università italiane”.
L’indignazione è cresciuta dopo i femminicidi delle studentesse Sara Campanella e Ilaria Sula nel marzo 2024, riaprendo il dibattito sulla sicurezza nei campus e sulla necessità di misure concrete, come i Centri universitari contro la violenza (CAV).
Secondo i dati della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), tra marzo e novembre 2024 sono state registrate 243 denunce per molestie sessuali, psicologiche, fisiche, digitali, oltre a casi di stalking e mobbing. In media, quasi un caso al giorno. Un sondaggio parallelo dell’Unione degli Universitari (UDU) ha rivelato che il 38% degli studenti percepisce le università come luoghi insicuri e che il 62% non è a conoscenza dell’esistenza di politiche o protocolli per prevenire la violenza.
Alcune istituzioni hanno già aperto uffici di assistenza: la prima è stata l’Università di Torino nel 2019, seguita da Bari e Perugia (2020), Calabria e Pisa (2022) e, più recentemente, Padova, Milano e altre. Tuttavia, solo il 25% delle università italiane dispone di questo tipo di centri e in molti casi la loro diffusione è limitata.
Il governo ha promesso sostegno: il 7 marzo 2025, il ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ha annunciato uno stanziamento di 8,5 milioni di euro per promuovere il benessere degli studenti e prevenire la violenza di genere, anche se non è chiaro quale parte di questi fondi andrà direttamente ai CAV.
Esperti e attivisti concordano sul fatto che gli uffici di assistenza sono necessari, ma da soli non sono sufficienti. Essi sostengono un piano globale che includa la legislazione, la cooperazione tra le istituzioni, l’educazione all’uguaglianza sin dalle prime fasi e risorse efficaci per coloro che decidono di rompere il ciclo della violenza.